Etiopia: un sogno chiamato tenda

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Etiopia: un sogno chiamato tenda

RSI.ch, 22 Dec 2011

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Il viaggio, la fame, la miseria ... sperando in una nuova vita

Un essere umano su sette soffre la fame. Ma se ne parla quasi soltanto in occasione di eventi fuori dal comune, come la siccità di portata eccezionale che ha colpito il Corno d’Africa quest’anno. Aggravata da una situazione di guerra in Somalia, ha provocato una nuova ondata di profughi verso i campi di rifugiati dei paesi vicini. Ma l’allarme carestia ha riguardato in totale 13 milioni di persone in diversi paesi, di cui 4,5 milioni in Etiopia e 3,75 milioni in Kenya.

Abbiamo voluto andare a vedere sul posto quale è la situazione: cosa succede quando la pioggia ritorna, ma la fame rimane in agguato e il mondo distoglie lo sguardo. Andrea Vosti si è recato a Dollo Ado, un campo profughi in terra etiope. Lucia Mottini ha incontrato nel Kenya settentrionale, popolazioni pastorali che si confrontano a mani nude con i cambiamenti climatici.
A cura di Andrea Vosti e Mattia Capezzoli

Registration, registrazione. L’anticamera del paradiso, l’ultimo passo, l’ultima formalità prima di partire verso Bur-Amino, l’ultimo campo allestito in fretta e furia per accogliere le nuove ondate di profughi Somali. Perché gli altri campi sono pieni, e il centro di transito scoppia. Era stato pensato per 3000 rifugiati, adesso sfiorano gli 8000.

“Volete vedere la miseria più nera?” chiede Voitek, il coordinatore olandese di Medici senza frontiere. Non facciamo tempo a rispondere, si incammina, gira attorno a una recinzione di filo spinato. Poi si volta: “Ecco, guardate. Facciamo l’impossibile per loro, ma sono troppi. Dovrebbero stare qui pochi giorni, in attesa che venga loro assegnata una tenda, in uno dei campi. E invece devono languire qui per due, tre mesi”.

Le capanne sono un intreccio di rami con sopra un telone. Dentro vivono in cinque, sei, talvolta sette membri di una stessa famiglia. Tutto quello che hanno ce l’hanno addosso. Ricevono un pasto al giorno. La maggioranza sono donne e bambini, qualche giovane, di uomini nemmeno l’ombra. La metà dei bambini che arrivano qui hanno meno di cinque anni, e di questi, la metà soffre di malnutrizione acuta.

“Spesso le madri portano i figli da noi solo quando sono in condizioni gravissime – spiega Linn di MSF – come se avere un bimbo malnutrito fosse una cosa normale, una condizione cronica, che non va curata”.

“Oggi sono felici – racconta Andrew, un inglese di Manchester che si occupa della registrazione per l’Alto commissariato dei rifugiati. Indica la fila di donne con i loro bambini in attesa che l’autobus dell’ONU venga a prenderli.

Hanno appena passato i controlli di identità, una rapida visita medica, hanno ricevuto un foglio con le loro fotografie in bianco e nero e il nome del campo dove sono destinati. I bambini giocano, sorridono alla camera, un’atmosfera festosa.

Tutti vogliono farsi fotografare, tutti vogliono raccontare la loro storia. E tutte le storie si assomigliano. La fame, la guerra, il lungo viaggio verso il confine etiope.

L’autobus arriva, le famiglie salgono una alla volta, hanno in mano il biglietto per quello che per loro sembra un paradiso. Destinazione Bur-Amino, una tenda, una nuova vita. Forse l’ultima tappa, perché nessuno ha voglia di tornare indietro. “Io non torno in Somalia – dice Amina arrampicandosi sui gradini. Non sapevo cos’era la pace, adesso l’ho trovata”.

Fa ciao con la mano, sorride, l’autobus parte in una nuvola di polvere. E agli occhi appiccicati ai finestrini si aggiungono altri occhi. Occhi che aspettano il loro turno, al di là della recinzione, sognando una tenda, la chiamata, la parola magica. Registration.